Paese che vai, dialetto che trovi e in ogni dialetto c’è certamente un detto che ne caratterizza tradizioni e abitudini. Se avete curiosità su detti, origini linguistiche delle parole, etimologia, libri, date un’occhiata al sito fenomenologia.net. Ma ora preparate i bagagli perché partiamo verso la Sardegna, almeno virtualmente. Ebbene, nel nord ovest dell’isola si trova Sassari, una città conosciuta per la famosa discesa dei candelieri, che fanno parte dell’Unesco e per ospitare la Cavalcata sarda, la celebre sfilata di costumi tradizionali provenienti da tutta l’isola. Ma c’è qualcos’altro che accompagna la nomea della città, il detto “sassaresi impiccababbu”, scopriamone origine e significato.
Sassaresi impiccababbu, cosa significa
Ormai, bene o male, tutti sanno che il sardo è una lingua, ma questa lingua si frammenta in una miriade di varietà linguistiche che si perdono nella notte dei tempi. Tra queste vi è il sassarese, la variante linguistica che lo studioso professor Leonardo Sole aveva catalogato come pidgin e che viene parlata appunto nella città di Sassari e, con inflessioni diverse anche a Porto Torres e Sorso.
Ma ancora più interessante dell’origine della variante linguistica è un detto che accompagna tutti gli abitanti di Sassari da tempo immemore: “sassaresi impiccababbu”, ovvero, sassarese impicca padre.
Ma da dove potrà mai trarre origine un detto tanto curioso quanto cruento? Ebbene, pare che questo epiteto, particolarmente caro ai tifosi cagliaritani durante i derby Cagliari -Torres, affondi le radici addirittura nel Medioevo.
Tra i vicoli del centro storico una storia macabra
Ora dobbiamo addentrarci tra i vicoli del centro storico, stretti carruggi, qualche volta maleodoranti, dove il sole filtra a fatica, caratterizzati da palazzine addossate le une alle altre, con fili di panni stesi e i ciottoli della pavimentazione che ti fendono la pianta dei piedi.
Qui, tra le strette viuzze, ai tempi dell’inquisizione, si consumò un terribile misfatto. Naturalmente si tratta di una leggenda, non sappiamo con certezza dove il racconto degli anziani si areni tra i meandri della fantasia, ma la storia è molto affascinante.
Durante l’inquisizione il tribunale si trovava proprio all’interno del castello, oggi purtroppo raso al suolo. Sembra che vi fosse un boia il cui aspetto non era noto a nessuno, per ovvi motivi, tanto meno ai giudici. Il boia abitava in una piazzola del centro storico, oggi chiamata Largo Quadrato Frasso, ben tenuta e decorata di verdi piante e ristorantini.
Ai tempi, però, dopo il cruento fatto, fu ribattezzata “Pattiu di lu diauru”, Patio del diavolo. Il boia usciva di casa tutte le mattine all’alba, interamente coperto dal suo mantello, per farvi ritorno a tarda sera.
Un giorno gli venne affidato un condannato a morte, imbavagliato e legato, al fine di essere giustiziato. Il boia doveva dunque incappucciare il malcapitato e portarlo fino alla Piazza Duomo dove sarebbe stata eseguita la condanna. Il trasporto avveniva con un carretto di legno, e sempre con lo stesso carretto trasportava i cadaveri dei giustiziati.
E qui arriva il momento più denso di pathos. Già, perché il boia, al mettere il cappuccio al condannato, si rese conto che si trattava del suo unico figlio scomparso da qualche tempo. Colto dalla disperazione propose al giovane uno scambio.
Si sarebbero scambiati i ruoli e sarebbe morto lui al suo posto, tanto nessuno conosceva la vera identità del boia. Il giovane, pentito per le sue malefatte, abbracciò il padre piangendo e si scambiarono le vesti. L’uomo fu impiccato al posto del figlio.
Una storia triste che diventa uno scherno
Nel tempo, però, il reale significato della storia è andato perdendosi e sempre più si è diffusa la novella del figlio che impiccò il padre per salvarsi, ripulita da tutto il pathos della storia originale e che metteva in evidenza l’egoismo dei figli.
I sassaresi, a lungo furono, e ancora oggi vengono, chiamati “impiccababbu”, e anche “magnacaura” (mangiacavoli), ma questa è un’altra storia!